Marie France TRISTAN
EXPLORATION DU BAROQUE
Non mi risulta che qualcuna delle tante nostre vivaci istituzioni accademiche e culturali, sempre attivissime e solertissime nel ramo convegni, dibattiti e seminari su autori e opere non sempre propriamente capitali, abbia finora onorato, con qualche appropriata iniziativa, l’imponente libro, uscito da ormai quattro anni, che Marie-France Tristan – un’appassionata studiosa di storia della letteratura italiana, in particolare seicenteca, che insegna alla Sorbonne – ha dedicato alla figura e all’opera di Giambattista Marino.
Eppure questo saggio – "La scène de l'écriture. Essai sur la poesie philosophique du Cavalier Marin (1569-1625)”. Édition Champion, Paris – è forse l’omaggio critico più maestoso che sia stato mai dedicato alla figura e all’opera di quel nostro grandioso poeta. Perché dunque i nostri più autorevoli marinòfili e marinòlogi non si affrettano a dedicargli una robusta presentazione, magari invitando l’autrice a parteciparvi?
Risultato di un’impressionante erudizione, il libro della Tristan è anche, anzi soprattutto, il frutto di una vigorosa intelligenza esegetica. La sola riserva che è forse lecito esprimere riguarda le sue dimensioni. Una generosa potatura (il volume consta, apparato bibliografico compreso, di 752 fitte pagine a volte ripetitive) gli avrebbe forse giovato. Ma si sa che sullo stile dei testi universitari vigila spesso una musa il cui nome segreto è Prolissina.
Fra i tanti passi in cui la Tristan torna ogni volta a illustrare la sua tesi principale non ve n’è tuttavia neanche uno che non le aggiunga un particolare interessante. E la tesi è insieme originale e profonda. Essa afferma infatti che Marino fu un poeta-filosofo, accostabile per molti aspetti a Bruno e Campanella, che mediante uno sfrenato gioco metaforico riuscì a fondere, soprattutto nell'Adone, teologia e mitologia, metafisica e cosmologia, etica ed estetica, con esiti mirabili e sorprendenti non soltanto sul piano formale ma anche su quello gnoseologico.
L’assunto della Tristan comporta ovviamente l’idea che nel testo mariniano gli effetti del linguaggio metaforico e allegorico sul discorso religioso e teologico, lungi dal lasciarne intatto il contenuto, non soltanto lo àlterano e lo contàminano. ma ne smantellano tacitamente il supposto primato. Insomma non sono effetti di semplice natura illustrativa e ornamentale, e come tali semanticamente e ideologicamente innocui, giacché hanno al contrario il magico potere di generare un senso ulteriore e superiore sia rispetto al senso letterale sia rispetto a quello figurato – un senso con cui si dischiude una nuova e più alta visione della realtà. Tesi probabilmente giustissima, che sembra fra l’altro perfettamente conforme alla sublime ironia del celebre passo in cui Borges definì la teologia “un ramo della letteratura fantastica”.